24 aprile 2007

Gli arrivederci non sono mai stati il mio forte

Sette anni. Sono passati sette anni da quando, cartina in mano, sono approdata a Trieste. Giravo tra le vie della città alla ricerca di un appartamento rigirando tra le mani un foglio pieno di nomi strani: Stuparich, Ortis, Tigor… Mi chiedevo che strana toponomastica avesse questo posto, che ancora non sapevo avrei sentito come casa mia.

Adesso è il momento degli arrivederci e io non sono mai stata brava a salutare. Non so cosa dire al sentiero Rilke che non ho mai percorso. Ho paura di
incrociare lo sguardo con la mia finestra preferita, che se non alzi la testa mentre stai camminando non vedi nemmeno. E cosa dire alle corse lungomare?
Ci sono delle immagini che ti rimangono negli occhi e non riesci a scrollartele di dosso neanche se ci provi.

Ma non è solo questo. C’è che, anche se i tuoi amici sono finiti in Portogallo, a Londra, a Urbino o di nuovo a casa loro, qui rimane sempre lo spirito di tutte le notti brave, del kebab migliore del mondo, del polletto mangiato con le mani, delle serate a spritz che finivano in Mojito, del sole sugli scogli e dei bagni a Barcola, dei lunghissimi discorsi al buio di notte, delle camminate random per le vie della città, del gelato di Zampolli che ogni anno diventa sempre più caro ma è il migliore in assoluto.

E poi chi si dimentica i weekend sui libri, le studiate prima degli esami, i mesi pre-laurea, ché alcune mattine ti svegli ancora con il cuore in gola e il pensiero di dover finire quel maledetto capitolo?
E tutte le persone solo viste, quelle incrociate per un semplice saluto, i pazzi per la città e sugli autobus che parlano da soli e leccano i vetri. Gli appartamenti che ho cambiato, le coinquiline fenomenali che ho avuto, le persone che hanno avuto la pazienza di conoscermi e di diventare mie amiche e che, anche in capo al mondo, troverò sempre il tempo e la voglia di sentire.


Però, adesso è l’inizio degli arrivederci. Comincio aprendo le valigie e mettendoci dentro le ultime cose. Finirò aprendo il cuore per farci stare più ricordi possibile.

15 marzo 2007

Meglio tardi che mai

Rispondo con calma
(forse un po’ troppa)
all’invito di Leetah…
È che ho bandito le conversazioni intellettuali per qualche tempo dal mio vocabolario.. soprattutto da quando ho scoperto che ne tengo anche quando sono ubriaca! Che dire? Urge periodo di disintossicazione!

La prima frase che in una conversazione intellettuale sono riuscita a evitare, non senza un certo sforzo,
(dunque mordendomi la lingua e ancorandomi alla sedia per non alzarmi in piedi con l’indice puntato)
è stata: “Ma come correlatrice, lei non dovrebbe aiutarmi?”

La seconda frase, musicalmente parlando, mi farebbe scendere nel girone dell’inferno più profondo (soprattutto visti gli ultimi sviluppi): “Oh, i Take That! A 14-15 anni erano i miei preferiti. Ho pure imparato i loro balletti e mi hanno fruttato un 9 in educazione fisica per un esercizio di ballo con voto”.

Terza frase, che mi gemella con Bridget : “Qualcuno sa dirmi dove si trova il bagno?”. Se vedete un solco che conduce al bagno, ebbene, l’ho scavato io.

Quarta frase: “…”.Lo so non è una frase, ma anche il non verbale parla. Quindi, testa che annuisce, sguardo vacuo, faccia da screen saver. Per la serie “Ma chi è il tizio di cui stai parlando? Mi puoi fare lo spelling?”.

E per finire, ultima frase: “è stato un piacere, ma ora devo proprio andare. Ci si vede un’altra volta”.

Funziona, fino a quando qualcuno ti risponde: “Seh, la prossima volta. Lo sai benissimo anche tu che non ci sarà”. Allora cominci a non usarla più.

Rilancio a planetzero (quando avrà tempo), a kla (vale quanto detto per planet) e a rafaeli che, anche se non conosco, immagino qualche conversazione intellettuale la tenga (complimenti per il blog :).

06 febbraio 2007

Non c’è storia, il mio non verbale continua a parlare…

È quasi come una maledizione. Qualsiasi pensiero mi passi per la testa si riflette sulla faccia. È un po’ la storia della lucertola che passa sulla fronte, quella che racconti ai bambini quando dicono una bugia

“ecco, vedi cosa succede se menti? ti è appena passata una lucertola sulla fronte”

e il bambino che si tocca (la fronte). Oddio, se dovessi convivere con una lucertola nei capelli che mi passa davanti agli occhi senza che me ne accorga, mi toccherei pur’io, per scaramanzia.

Comunque, dicevo. C’ho la faccia che parla. E non solo quando apro bocca.
Una delle mie prof. all’Università mi diceva che mi “televisionavo”. Cioè, assumevo una certa espressione ogni volta che mi passava per la testa qualcosa. E così, ogni due minuti di conversazione mi chiedeva “A cosa stai pensando?”. Mi diceva che facevo sentire stupide le persone che avevo davanti. Che la mia faccia prendeva un’espressione tale che chi mi parlava si chiedeva cosa avesse detto di sbagliato. In realtà io pensavo solamente ai cavoli miei. Non che non ascoltassi, ma prendevo quello che mi veniva detto e ci costruivo il mio castello di pensieri.

In appartamento, il ragazzo di una mia amica si divertiva a guardarci parlare perché, oltre a gesticolare da brave italiane, avevamo una mimica facciale invidiabile. “Ma quante facce sapete fare, voi!” ci diceva con il suo accento tedesco. Per lui era come essere al teatro. Dell’assurdo.

Ok, il mio non verbale parla. E devo dire che mi risparmia pure un sacco di fatica, quando devo far capire che non è aria. Ma ha pure i suoi effetti collaterali.
Passi, quando qualcuno ti tira una pezza perché il tuo sopracciglio si è alzato di mezzo centimetro mentre ti diceva quella determinata cosa.
Passi anche, (ma non troppo), che la gente che mi interessa e che mi sta più simpatica all’inizio creda di starmi in quel posto.
Ma che l’unica serata in cui esco, dopo settimane di reclusione da tesi, il cameriere mi chieda “Perché mi hai guardato con quella faccia?”, porgendomi il terzo spritz, ecco, no. Questo non lo accetto.