Che non significa riempire i “morti” - come si dice in Veneto - ossia le bottiglie di vino/birra/liquore scolate.
Ieri, mattinata a Trento per portare in appartamento il minimo indispensabile.
La mia nuova singola era un vuoto, che ho deciso di non riempire come l’ultima stanza a Trieste. Sette anni avevano dato i loro frutti: a momenti per tornare mi serviva un furgoncino per i traslochi.
Le mie nuovi chiavi erano un vuoto, con il loro scialbo talloncino di plastica blu agganciato a un cerchio e la mancanza dell’unica chiave davvero utile, quella del portone d’ingresso del condominio.
L’armadio era un vuoto e i cassetti e la scrivania, immensa e di forma strana che ho già immaginato il mio pieno personale.
Il letto era un vuoto, con il materasso e il cuscino di quel grigio-azzurrino che aspettano di essere incappucciati da un velo di colore.
I muri erano un vuoto. Piccole macchioline di scotch a ricordare che qualcuno era già stato lì e li aveva resi vivi con foto e ricordi.
La finestra era un vuoto, riempito con una tenda. Spalancata dava su un vuoto ancora più grande i cui bordi erano maestose montagne. E guardando in basso c’erano tanti pentolini, somiglianti a studenti di Economia, che mangiavano i loro panini nel grande cortile di facoltà.
L’appartamento era un semi-vuoto: 2 inquiline su 4.
Trento era un vuoto perché ancora tutto da scoprire.
Le persone erano un vuoto bianco su cui imparare a scrivere le loro storie.
Crea un certo vuoto avere tanti vuoti da riempire di nuovo. È come ricominciare tutto da capo in un posto nuovo, tra gente nuova, con compiti nuovi. Il tutto senza sapere come andrà.
Allo stesso tempo, però, mi sento una scatola piena: il mio contenuto preme da ogni parte per uscire e andare a riempire i vuoti che ci sono. Perché alla fine riempirli senza rendersene conto sembra una magia e ti accorgi di averla fatta solo dopo che è avvenuta.